I danni da infortunio e da malattia professionale

Set 5, 2024 | Diritto Civile, Diritto del lavoro, Infortuni sul lavoro | 0 commenti

I danni da infortunio e da malattia professionale: oltre la mera tutela “reddituale” ed in una prospettiva di essenziale unitarietà del danno alla salute del lavoratore

Sommario: 1. Novità e ripercussioni sistematiche del d.lgs. n. 38/2000. 2. La tutela previdenziale dei danni (alla salute) da c.d. mobbing. 3. La liquidazione del danno alla persona da infortunio sul lavoro. 4. Sistema “binario”: il danno morale da lesione della salute.

I danni da infortunio e da malattia professionale
INDICE: I danni da infortunio e da malattia professionale
  1. Ripercussioni sistematiche del d.lgs. n. 38/2000
  2. La tutela previdenziale dei danni (alla salute) da c.d. mobbing
  3. La liquidazione del danno alla persona da infortunio sul lavoro
  4. Sistema “binario”: il danno morale da lesione della salute
  1. Ripercussioni sistematiche del d.lgs. n. 38/2000 – I danni da infortunio e da malattia professionale

Sono trascorsi ormai oltre vent’anni dall’approvazione del d. lgs. n. 38/2000 che ha modificato il TU sugli infortuni e malattie professionali, una vera “rivoluzione copernicana” nel sistema delle tutele a favore del lavoratore infortunato e/o malato per cause di lavoro. Il crescente, quanto insopportabile ed incessante aumento degli infortuni sul lavoro, ha riportato – suo malgrado – d’attualità l’interesse per il funzionamento della (invero, piuttosto recente) riforma. Difatti, le denunce di infortunio sul lavoro entro il quinto mese del 2024 sono state 251.132 (+2,1% rispetto a maggio 2023), con un aumento più rilevante per gli incidenti avvenuti nel tragitto casa-lavoro.

Le denunce di infortunio con esito mortale sono state 369 (+3,1%): nell’incremento sono stati determinanti gli incidenti mortali plurimi. In aumento anche le patologie di origine professionale denunciate, pari a 38.868 (+24,0%) nei soli primi mesi del 2024 (v. Comunicato Inail del 28.6.2024).

Di conseguenza nel settore dei rapporti di lavoro cresce, doverosamente, l’interesse per la riparazione dei danni al lavoratore derivanti dalla lesione di diritti della personalità diversi dal diritto alla salute, tanto che la giurisprudenza lavoristica rappresenta forse oggi (dopo l’iniziale timida titubanza a misurarsi con le novità provenienti dalle regole della comune responsabilità civile) la frontiera più avanzata per la tutela della persona e della personalità del lavoratore, come comprovano su quest’ultimo versante le sempre più numerose decisioni in tema di danno da depressioni e da stress, da molestie sessuali, da mobbing.

Nondimeno, l’ambito tuttora privilegiato di applicazione della tecnica risarcitoria rimane quello della menomazione della integrità psico-fisica derivante da infortunio sul lavoro o da tecnopatia. In questo contesto, l’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 ha rappresentato la prima traduzione normativa, significativamente innervata nell’ambito pubblicistico, dei principi consolidati nella giurisprudenza civilistica in tema di risarcimento del danno alla persona.

Il risultato raggiunto, imposto dalle reiterate quanto doverose sollecitazioni della Consulta, sorrette dalla convinzione della sostanziale unitarietà del danno alla salute ed attuato in nome del principio di eguaglianza, ha assunto un significato sistematico particolarmente rilevante, dato che, in esso, il danno alla salute costituisce l’elemento di saldatura tra il sistema dell’assicurazione sociale e la responsabilità civile.

Si è confermato con questo che il danno alla salute rappresenta una figura di danno appartenente al diritto privato generale, suscettibile, in quanto tale, di essere esportata fuori dei confini del suo settore di più specifica elaborazione.

Tale operazione non pare nemmeno incrinata o messa in dubbio dalla svolta in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale operata dalla Suprema Corte ed avallata dalla Corte costituzionale con la nota decisione n. 233/2003, a patto di difendere l’autonomia concettuale e liquidativa del danno alla salute nel contesto dei danni non patrimoniali.

A riprova della essenziale unitarietà del danno in esame si pone anche la stessa definizione di danno biologico, mutuata dal consolidato orientamento giurisprudenziale, accolta dall’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 e ripetuta, con un’unica variazione che riguarda l’accertamento della patologia, dall’art. 5 della l. n. 57/2001.

Omettendo, per ovvie ragioni di economia più specifiche considerazioni sulla criticata accezione del danno in termini di lesione dell’interesse, si deve invero constatare una sostanziale omogeneità, sul piano ontologico, del danno biologico previdenziale ancorché necessariamente indennizzato in maniera forfetizzata rispetto al danno biologico proprio del diritto comune: questo ha effettivamente agevolato la soluzione dei problemi di confronto tra l’indennizzo previdenziale e il risarcimento del danno, specie in ordine alle azioni di rivalsa. La sostituzione del concetto di ridotta attitudine al lavoro sulla quale si incentrava il d.P.R. n. 1124/1965 prima della riforma con quello di lesione della integrità psico-fisica, considerata in maniera non dipendente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito, ha determinato un radicale mutamento dell’oggetto della protezione assicurativa, in linea con la crescente attenzione, dedicata dalla giurisprudenza e dal legislatore, alle modalità organizzative dell’ambiente di lavoro.

Tradizionalmente deputato ad offrire ristoro a danni di natura reddituale, il meccanismo di assicurazione sociale indennizza in via primaria un tipo di pregiudizio “a-reddituale”, la cui appartenenza al novero dei danni non patrimoniali nell’area della responsabilità civile è stata espressamente confermata dalla Corte costituzionale con la citata decisione n. 233/2003. Ciò sospinge ulteriormente il sistema “previdenziale” verso l’estensione della tutela assicurativa ad eventi in precedenza non considerati, che attengono non solo a specifici fattori di pericolosità dell’attività svolta, ma includono anche rischi connessi agli aspetti organizzativi dell’ambiente di lavoro.

A determinare questo mutamento hanno assunto particolare rilevanza più fattori. In primo luogo, l’espressa trasposizione in sede normativa del superamento della lista rigida delle malattie professionali operato dall’art. 10 del d.lgs. n. 38/2000, secondo quanto da tempo aveva decretato la Corte costituzionale con la fondamentale decisione n. 179/1988, anch’essa in definitiva frutto della rilevanza attribuita al diritto alla salute, che aveva già ammesso la possibilità di offrire una tutela pubblicistica di tipo previdenziale ad un’area di eventi oggetto della disciplina di diritto privato comune. In secondo luogo, a sollecitare il mutamento, specie dal punto di vista dell’estensione del concetto di “occasione di lavoro“, soccorre la disciplina dell’infortunio in itinere (di creazione giurisprudenziale ma poi codificata, proprio col d. lgs. n. 38/2000) oltre all’estensione della tutela assicurativa al lavoro svolto in ambito domestico.

Il concetto di rischio professionale, principio-cardine della disciplina previdenziale, da tante parti già criticato ancor prima della riforma, risulta dunque sempre meno dipendente da un ambiente organizzato nel quale vengono svolte attività potenzialmente lesive dell’incolumità fisica e sempre più legato all’intero assetto organizzativo e “relazionale” del contesto nel quale il lavoratore si trovi a prestare la sua attività, tanto da essere definito più in negativo che in positivo: qualunque rischio derivante dalla permanenza nell’ambiente di lavoro o dallo svolgimento dell’attività lavorativa, purché non elettivo, ossia non dovuto “ad una scelta arbitraria del lavoratore“, che crei ed affronti, in base a ragioni o impulsi personali, “una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa” (v., per tutte, Cass., 21 settembre 2001, n. 15312).

  1. La tutela previdenziale dei danni (alla salute) da c.d. mobbing – I danni da infortunio e da malattia professionale

Il percorso intrapreso dalla disciplina previdenziale sembra così condurre all’ampliamento della sfera di operatività dell’assicurazione obbligatoria in correlazione con la progressiva estensione dell’ambito di efficacia del disposto dell’art. 2087 c.c., tutte le volte in cui l’inosservanza del “dovere di sicurezza” del datore di lavoro provochi un danno all’integrità psico-fisica del lavoratore.

Tale evoluzione è chiaramente riscontrabile nell’ultimo effetto prodotto dalla riforma del sistema previdenziale, ossia nella tutela previdenziale dei c.d. danni (alla salute) da mobbing.

All’indomani della pubblicazione del d.lgs. n. 38/2000 gli studiosi del fenomeno del mobbing avevano individuato nel disposto dell’art. 10 di tale provvedimento normativo, nel punto in cui la norma ribadisce la possibilità di considerare malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle, la probabile giusta collocazione delle malattie da mobbing. L’inserzione nel sistema previdenziale delle malattie psichiche o psicosomatiche derivanti da vessazioni sul lavoro poteva rinvenire altri agganci normativi nella stessa norma: da un lato, il riferimento alla possibilità di considerare anche liste di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa, da tenere sotto osservazione ai fini della revisione delle tabelle delle malattie professionali di cui agli artt. 3 e 211 del Testo Unico; dall’altro lato, l’istituzione, presso la banca dati dell’Inail, del registro nazionale delle malattie causate da lavoro ovvero ad esso correlate.

I problemi sollevati dal c.d. mobbing riguardano però, in primo luogo, le modalità di qualificazione delle malattie derivanti da vessazioni sui luoghi di lavoro, spesso ad eziologia multifattoriale ed influenzabili dalle preesistenze e dalla struttura della personalità del soggetto, quali malattie professionali, con la correlativa implicazione della dimostrazione del nesso di causalità.

Significativa appare, a questo proposito, la precisazione del concetto di “causa lavorativa” contenuta nella prassi Inail, estesa ad includere “non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative” (v. Circolare n. 71 del 17 dicembre 2003).

I danni da infortunio e da malattia professionale

I disturbi psichici possono quindi essere considerati di origine professionale solo se siano causati, o concausati in modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e della organizzazione del lavoro.

Sotto il profilo della logica assicurativo-previdenziale, un ulteriore profilo di riflessione può appuntarsi sul fatto che il c.d. mobbing è espressione di un comportamento necessariamente doloso del datore di lavoro o dei colleghi di lavoro della vittima.

L’inclusione dei danni alla salute da mobbing nel meccanismo assicurativo allarga pertanto l’area degli illeciti dolosi oggetto di copertura indennitaria, nell’intento di rafforzare opportunamente la componente solidaristica, ma l’accesso del lavoratore alla protezione sociale, per tali ipotesi di danno, compromette inevitabilmente la funzione deterrente. Né il recupero di tale funzione può attuarsi operando una pedissequa trasposizione, nello specifico settore, dei tratti propri dell’assicurazione privata, ossia configurando la possibilità di un’azione di rivalsa fondata sull’addebito doloso.

L’azione di regresso dell’ente previdenziale verso il datore di lavoro é invero dipendente dal presupposto del fatto-reato perseguibile d’ufficio e tale eventualità è sicuramente piuttosto remota nel caso dei danni in esame.

Questi rapidi cenni gli unici qui consentiti denotano con evidenza l’impossibilità di liquidare frettolosamente l’iniziativa dell’ente assicurativo-sociale, che induce quanto meno ad un ripensamento più approfondito della compatibilità tra funzione deterrente e automatismi assicurativi e ad una particolare attenzione, in presenza dei danni alla salute da mobbing, per le eventuali voci di pregiudizio non indennizzabili e per la loro funzione.

  1. La liquidazione del danno alla persona da infortunio sul lavoro – I danni da infortunio e da malattia professionale

Venendo alla più generale considerazione delle modalità di determinazione delle spettanze previdenziali (ivi incluse dunque quelle da corrispondere nel caso di danni alla salute derivanti da mobbing), gli elementi di novità introdotti al d.P.R. n. 1124/1965 dal d.lgs. n. 38/2000 ed in particolare dall’art. 13 risultano ormai ampiamente noti, sì che per essi ci si può limitare a sintetiche considerazioni.

La riforma ha, come noto, introdotto un meccanismo di liquidazione indennitaria che sostituisce la rendita determinata ai sensi dell’art. 66 del d.P.R. n. 1124/1965 ed ha diviso gli infortuni indennizzabili in due fasce.

Alla prima appartengono gli infortuni che generano un’invalidità compresa, in termini percentuali, tra il sei e il quindici per cento, per i quali spetta al lavoratore danneggiato la corresponsione di una somma in capitale, determinata attraverso un punto monetario di invalidità che aumenta in funzione della crescita della percentuale di invalidità e decresce in funzione dell’età del soggetto.

Alle invalidità di grado superiore al quindici per cento della ridotta validità compete invece una rendita (il sistema è dunque “misto”) per il danno biologico, alla quale si affianca un’ulteriore quota di rendita commisurata al grado della menomazione ed ad una percentuale della retribuzione dell’assicurato per l’indennizzo delle conseguenze patrimoniali delle menomazioni.

Il danno patrimoniale previdenziale, in linea con il carattere indennitario dell’intervento legislativo, prescinde dall’effettivo pregiudizio economico sofferto e dalla prova di esso, apparendo modellato sulle perdite economiche di un lavoratore “medio”.

Il sistema prevede dunque una doppia “franchigia”: per i danni biologici inferiori al sei per 6% e per i danni patrimoniali conseguenti alle menomazioni che si collocano sotto la soglia del 16%. Il primo limite normativo parrebbe rinvenire la sua ratio nell’ottica di quella “transazione sociale” che secondo i più si pone alla base della disciplina infortunistica fin dai suoi esordi, potendo giustificarsi in virtù della minore rilevanza sociale dei c.d. micro-danni, la cui riparazione può rimanere affidata alle regole generali di responsabilità ovvero (in caso di infortunio addebitabile alla responsabilità del lavoratore) all’assicurazione privata o “autoassicurazione”.

Si tratta, tuttavia, di una spiegazione sorretta dalla sola logica sottostante all’art. 38 Cost., che ignora la previsione dell’art. 32 Cost. e la combinazione tra le due norme operata in materia dalla Corte costituzionale.

I danni da infortunio e da malattia professionale

Il secondo limite rappresenta invece un valore convenzionalmente fissato per legge alla presunzione di perdita reddituale, riferita solo alle menomazioni della integrità psico-fisica che raggiungano una certa gravità: esso sostituisce le micropermanenti di un tempo, che le tabelle allegate al d.P.R. n. 1124/1965 fissavano nella soglia del 10 per cento della scala convenzionale di riduzione della attitudine al lavoro. Per questo motivo, secondo taluno, non sarebbe possibile configurare il danno patrimoniale previdenziale come una vera e propria franchigia.

Il “nuovo” assetto delle assicurazioni sociali così come emerso dalla riforma del 2000 è stato completato con la tabella delle menomazioni approvata con decreto del Ministero del lavoro in data 12 luglio 2000, destinato esclusivamente alla valutazione medico legale del danno biologico, che si differenzia nettamente rispetto alle vecchie tabelle per molteplici ragioni: l’elevato numero di voci contemplate che prevede una maggiore attenzione alla persona del lavoratore anche al di fuori degli aspetti lavoristici “puri”, il carattere non più tassativo delle tabelle (salvi i casi di indicazione dei punti unici), la mancanza della precedente netta differenziazione tra infortuni e malattie professionali, l’attesa cancellazione dell’anacronistica distinzione tra i lavoratori industriali e quelli agricoli. E’ stato così esteso il concetto di malattia da lavoro, e nell’ottica del danno biologico come danno a-reddituale, sono stati inclusi nel sistema previdenziale eventi lesivi che possono non compromettere la capacità produttiva ma che incidono sull’intera gamma delle potenzialità del danneggiato.

Se, in passato, era stata la disciplina degli infortuni sul lavoro ad influenzare, soprattutto tramite l’opera della medicina legale, la metodologia della valutazione del danno alla persona nel diritto comune (da essa sono stati tratti, ad esempio, i concetti di inabilità permanente, assoluta e parziale, di inabilità temporanea e di micropermanenti), molte delle novità della riforma provengono invece dal diritto della responsabilità civile.

  1. Sistema “binario”: il danno morale da lesione della salute 

Dopo la riforma, la liquidazione del danno alla persona derivante da infortunio sul lavoro o da tecnopatia appare come il risultato di un sistema fortemente “combinato”, frutto di un innesto operante non senza qualche difficoltà, per quanto si preciserà oltre tra criteri liquidativi di stampo indennitario e regole risarcitorie (proprio quelle regole per sfuggire alle quali, storicamente, era stata elaborata la disciplina speciale).

Dinanzi al sistema previdenziale rinnovato, gli spazi di operatività delle regole di responsabilità (di carattere non solo aquiliano ma anche contrattuale) risultano infatti di certo rilievo.

L’applicazione del diritto generale si lega ormai al postulato che l’esonero da responsabilità del datore di lavoro riguardi esclusivamente la sfera dell’ambito della copertura assicurativa. Di conseguenza, dinanzi alla “copertura assicurativa” riformata rimangono affidati al diritto comune tutti i danni esclusi dall’operatività della tutela previdenziale.

Tra questi, i danni diversi dal danno alla persona, quali il danno alle cose (nell’ipotesi di infortunio in itinere verrà essenzialmente in considerazione il danno al veicolo) e il rimborso delle spese mediche diverse da quelle erogate dal servizio sanitario nazionale.

Tra i danni alla persona, in primis, tutti i danni biologici con esiti permanenti al di sotto della soglia di indennizzabilità e il danno biologico temporaneo, avendo conservato a questo proposito la corresponsione delle indennità previdenziali natura di ristoro del pregiudizio puramente economico.

Il danno biologico a carattere temporaneo è stato invero ingiustificatamente ignorato dall’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000, mentre con un’evidente disparità di trattamento tra i danneggiati risulta opportunamente previsto come voce a sé stante dall’art. 5, comma 2 lettera b), l. n. 57/2001. E questo, sebbene i criteri dettati per la liquidazione di tale voce di danno risultino alquanto apodittici e soprattutto incentivino la criticabile tendenza alla sua “standardizzazione”.

I danni da infortunio e da malattia professionale

Nella normativa liquidativa, tale danno viene infatti determinato, in contrasto con la necessaria esigenza di personalizzazione che si continua ad invocare per il danno biologico a carattere permanente, attraverso la mera applicazione dei valori tabellari per ogni giorno di invalidità. La possibilità di personalizzare ulteriormente il danno biologico viene invero riferita solo al danno biologico da permanente e non anche a quello avente carattere temporaneo, seppur la giurisprudenza abbia dato indicazioni favorevoli e ad oggi piuttosto consolidate per la c.d. “personalizzazione” della liquidazione del danno biologico temporaneo, anche oltre il caso del c.d. danno terminale.

Ancora, alle regole comuni è deputato il risarcimento del danno patrimoniale “sotto franchigia”, ossia per le invalidità comprese nella fascia dal 6 al 15 per cento della ridotta validità e del danno non patrimoniale “non biologico” che una volta affermatosi il principio secondo il quale l’esonero da responsabilità riguarda solo la sfera dell’ambito della copertura assicurativa prescinde per la sua risarcibilità dal presupposto del fatto-reato perseguibile d’ufficio.

Sul più generale piano sistematico, la conservazione dell’autonomia del danno alla salute e la difesa della sua costruzione concettuale, oltre che la sua meditata esperienza liquidativa, sia nell’area della responsabilità civile sia in quella appannaggio dell’assicurazione sociale, appaiono particolarmente rilevanti.

Autore: © Avvocato Daniele Iarussi – Docente e dottore di ricerca in Diritto del lavoro presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna e Avvocato Specialista e Cassazionista in Mantova

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