Il regime del contratto penalmente rilevante

Lug 15, 2022 | Assistenza legale imprese, Diritto Civile, Diritto Penale | 0 commenti

Il regime del contratto penalmente rilevante

Nell’ambito della nullità, quale generale categoria di invalidità del negozio giuridico, si suole distinguere tra illegalità ed illiceità del contratto.

La distinzione anzidetta trae spunto dall’art. 1418 c.c., il quale, nell’individuare le cause di nullità del contratto, distingue la nullità derivante dalla mera contrarietà a norme imperative, di cui al primo comma, da quella discendente dall’illiceità della causa, dei motivi o dell’oggetto, prevista dal secondo comma della disposizione.

Il regime del contratto penalmente rilevante

Come previsto dalla norma, in particolare, la contrarietà a norme imperative determina la nullità del negozio salvo che la legge disponga altrimenti; al contrario, l’illiceità della causa, dei motivi o dell’oggetto è sempre sanzionata con la nullità del contratto.

Rispetto all’illegalità, dunque, derivante dalla mera violazione di norme inderogabili, l’illiceità manifesta certamente una più forte contraddizione del negozio con l’ordinamento giuridico.

L’illiceità, d’altronde, non consente l’applicazione delle norme in materia di conversione del contratto nullo (art. 1424 c.c.) e di conferma della donazione nulla (art. 799 c.c.), le quali non si ritengono operanti nell’eventualità in cui le parti intendano perseguire con il negozio un scopo contrario alla legge.

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Nello stesso tempo, come previsto espressamente dall’art. 2126, comma 1, c.c., al contratto illecito non si applica il principio, previsto con riguardo al contratto di lavoro, dell’inestensibilità degli effetti della nullità alle prestazioni già eseguite.

Detto questo, ci si chiede quando effettivamente un negozio possa considerarsi illecito e non soltanto illegale.

Anche l’illiceità, come l’illegalità, si manifesta anzitutto nella violazione di norme imperative: le norme imperative la cui violazione comporta l’illiceità del contratto, tuttavia, devono essere mantenute distinte da quelle la cui infrazione ne determina la mera illegalità; trattasi, infatti, di disposizioni a carattere proibitivo, ovvero che impongono divieti inderogabili, nonché di norme esprimenti i principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’illiceità del contratto, d’altronde, è determinata dalla contrarietà dello stesso all’ordine pubblico o al buon costume.

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Per “ordine pubblico” devono intendersi quelle norme imperative che si ricavano per implicito dal sistema legislativo e che, sebbene non scritte, costituiscono i principi generali sui quali si fonda l’ordinamento giuridico.

Si definisce “buon costume”, invece, quell’insieme di norme imperative, anche esse non scritte e ricavate implicitamente dall’ordinamento giuridico nel suo complesso, le quali impongono una valutazione delle condotte dei singoli in termini di moralità ed onestà.

Tanto premesso, si considera “oggetto” del contratto il bene o la prestazione in esso dedotta, la quale, come previsto dall’art. 1346 c.c., deve essere possibile, lecita, determinata o determinabile.

Quanto alla nozione di “causa”, invece, l’orientamento tradizionale ne accoglie una concezione astratta, andando ad identificarla con gli effetti essenziali che il negozio è destinato a produrre.

Di diverso avviso è invece l’impostazione più recente adottata dalla giurisprudenza, per la quale la causa del negozio corrisponde allo scopo pratico che le parti intendono perseguire con esso.

Mentre la concezione della causa in astratto, dunque, riferisce l’illiceità della causa agli effetti che il negozio produce, quella della causa in concreto ritiene che l’illiceità debba invece essere valutata con riguardo al fine che le parti intendano raggiungere con il contratto.

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L’accoglimento dell’una o dell’altra impostazione influisce anche sulla definizione dei motivi: per i sostenitori della teoria della causa in astratto, infatti, essi devono identificarsi con le ragioni soggettive che spingono i contraenti alla stipulazione del negozio, le quali sono di norma irrilevanti salvo che non siano illecite e comuni ad entrambe le parti, rendendo in tal caso nullo il contratto ex art. 1345 c.c.

Secondo la tesi della causa in concreto, per contro, la norma menzionata non sancirebbe un’ipotesi di illiceità dei motivi, quanto di illiceità della causa: i motivi comuni ad entrambi i contraenti, infatti, assurgono a causa in concreto del negozio.

Sulla base di tale impostazione, dunque, i motivi sarebbero sempre irrilevanti per l’ordinamento giuridico, posto che essi coincidono con le ragioni soggettive, non comuni tra i contraenti, che hanno portato ciascuna parte alla conclusione del negozio.

Come precisato dalla giurisprudenza, tuttavia, affinché il motivo illecito possa ritenersi comune ad entrambi i soggetti contraenti, e quindi legittimare l’esercizio della relativa azione di nullità, non è sufficiente che lo stesso sia conosciuto dalla controparte, essendo necessario che questa miri a trarre vantaggio dall’attività illecita che l’altra parte intende esercitare.

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Il contratto illecito, in quanto nullo, consente l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., costituendo nello specifico un indebito oggettivo, e permettendo così a colui il quale ha effettuato il pagamento non dovuto di ottenerne la restituzione.

A tale principio la legge pone però un’importante eccezione: ai sensi dell’art. 2035 c.c., in particolare, chi ha eseguito una prestazione che, anche da parte sua, costituisce offesa al buon costume non può ripetere quanto pagato.

La norma pare in realtà priva di qualsiasi fondamento giuridico, tant’è che ad oggi risulta sostanzialmente inapplicata.

Essa, d’altronde, sembra porsi in contrasto con lo scopo che intende perseguire il legislatore con l’introduzione della nozione di “buon costume”, ovvero garantire la moralità e la correttezza delle condotte dei singoli contraenti, in quanto finisce per permettere la realizzazione dello scopo immorale a danno del soggetto più morale del rapporto obbligatorio, ossia colui il quale ha effettuato la prestazione concordata, agendo quantomeno nel rispetto del principio “pacta sunt servanda”.

Il regime del contratto penalmente rilevante

Risulta invece difficilmente condivisibile l’opinione di chi giustifica la norma sulla base della necessità di distogliere la collettività dalla stipulazione di negozi immorali, in ragione del fatto che la stessa sembra fondarsi su di un postulato errato, ossia che le parti possano ignorare l’esistenza di una norma giuridica o di un divieto amministrativo, andando a concludere inconsapevolmente negozi vietati, mentre non possano invece non rendersi conto del carattere immorale del contratto.

Di difficile accoglimento, d’altra parte, è l’interpretazione che giustifica l’eccezione al diritto alla ripetizione sulla base dell’immoralità dello stesso attore e dunque del fatto che sarebbe indegno azionare in sede giudiziaria una simile pretesa.

A riguardo, infatti, deve osservarsi che altrettanto scorretto ed indegno sarebbe consentire all’accipiens di mantenere quanto ricevuto in virtù dell’esecuzione di una prestazione immorale.

Ciò premesso, con specifico riferimento al contratto concluso in violazione di una norma penale e, in particolare, con riguardo alla sanzione ad esso applicabile, si sono sviluppati due distinti orientamenti.

Secondo una prima tesi, il contrasto tra il negozio e la norma penale sarebbe suscettibile di determinare la nullità virtuale del negozio ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

Di differente avviso è invece un’altra interpretazione, per la quale la verifica delle sorti del contratto concluso in violazione di una norma penale deve essere condotta sulla base della diversità che caratterizza tali norme rispetto a quelle civili, verificando cioè se alla fattispecie penale possa coincidere una patologia contrattuale.

Per tale impostazione, dunque, la violazione della norma penale può comportare differenti tipologie di nullità, a seconda dell’elemento colpito da illiceità.

La valutazione deve essere condotta, anzitutto, distinguendo tra reati contratto e reati in contratto: i primi si verificano quando è la stipulazione del contratto in sé a costituire reato, mentre nei secondi il negozio risulta totalmente lecito e la violazione della norma penale avviene tramite comportamenti posti in essere dalle parti nella fase precedente alla stipulazione del negozio.

Ai reati contratto, in particolare, si ritiene applicabile l’art. 1418, comma 1, c.c., trattandosi di negozio contrario a norma imperativa, quale appunto quella penale.

Quanto ai reati in contratto, invece, occorre distinguere a seconda che la norma penale sanzioni uno od entrambi i contraenti: nel primo caso, ovvero qualora la sanzione penale sia indirizzata ad uno solo dei contraenti, come per esempio negli illeciti caratterizzati dalla cooperazione della vittima, il negozio deve ritenersi meramente annullabile, salvo che la legge non ne disponga specificatamente la nullità; al contrario, nel caso in cui la sanzione penale sia indirizzata ad ambedue le parti, allora il contratto sarebbe nullo per illiceità della causa o dei motivi comuni ex art. 1418, comma 2, c.c., posto che il giudizio di disvalore concerne entrambi i soggetti del rapporto.

La violazione della norma penale, d’altra parte, oltre che riguardare il contratto in sé e per sé considerato ovvero concernere il comportamento delle parti nella fase precedente alla sua conclusione, può avere inoltre ad oggetto lo scopo pratico perseguito dalle parti con il contratto.

Anche in questa ipotesi, in particolare, si ritiene configurabile una nullità strutturale ex art. 1418, comma 2, c.c., per illiceità della causa o dei motivi.

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